La nostra Valle
Qui, Natura e Tradizione sono di casa...
2. Il testamento dell'appestato
Quando la terribile pestilenza dei 1630 - la stessa descritta così bene dal Manzoni ne "I Promessi Sposi" - s'abbatté anche sul Trentino, la gente dei villaggi venne colta alla sprovvista dal morbo letale. A migliaia morirono imprigionati nelle loro case, isolati dal resto del mondo, perché in tal modo avevano pensato di scampare al pericolo: infatti le valli vennero presidiate agli imbocchi; ai crocicchi le guardie bloccavano e rimandavano indietro i sospetti portatori del male e si preferiva passare per le armi coloro che si ribellavano, piuttosto che correre il rischio di veder propagarsi l'epidemia. Eppure la peste riuscì a superare anche barriere più impenetrabili e raggiunse perfino i paeselli e i villaggetti più isolati. Fu il caso di Irone, quattro case in tutto all'inizio della Val d'Algone: in pochissime settimane la popolazione, già scarsa di per sé, venne falcidiata, tanto che alla fine rimase in vita un solo superstite, ridotto al compito di guardiano dei morti. Un giorno, trascinatosi con le ultime forze sulla cima del Doss dei Copi, chiamò a gran voce la gente che abitava di sotto, supplicandola di convocare un notaio. Fu accontentato e così gridò ai quattro venti il suo testamento, lasciando precise disposizioni per il futuro della sua casa e dei campi. Ma fu un gesto inutile: per sua fortuna il morbo scemò all'improvviso, così come all'improvviso era esploso, e l'uomo ebbe salva la vita. Anzi toccò a lui l'onore di contribuire alla rinascita dei paesi vicini, non di Irone, che da quell'anno fu abbandonato dagli uomini, anche se non da Dio.
Era rimasto solo lui, a presidiare le case di Cerana soffocate dalla peste, ma non sapeva cosa fare: scappare non era possibile, l'avrebbero bloccato all'ingresso di Preore e rimandato indietro a morire da solo tra i suoi morti. Pregare Iddio, certo, gli era di sollievo, ma anche così facendo la paura del morbo non diminuiva per nulla. Chiudersi in casa e attendere che tutto si compisse, forse, era l'unica soluzione. E l'uomo decise: prese dalla piccola sagrestia un foglio di carta e scrisse con poche e semplici parole il suo testamento. «Lascio ogni mio avere, la casa, i campi e l'orto, nonché le bestie che sopravvivranno alla pestilenza, alla buona gente di Vigo, Bolzana e Fàvrio. Sappiano loro farne buon uso, per venire incontro alla miseria dei poveri e alla solitudine dei vecchi». Poi arrotolò il testamento, lo legò alla bell'e meglio con una cordicella di canapa e gettò il tutto da una roccia, affinché venisse raccolto dalla gente che viveva di sotto. Quindi raggiunse il suo giaciglio, si sdraiò e chiuse gli occhi, restando in attesa della fine, che sentiva ormai vicina.
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